La vulvodinia è una condizione di dolore cronico vulvare della durata di almeno 3 mesi, senza una causa chiaramente identificabile. Nel 2022, l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha definita come un “dolore che impatta in maniera invalidante sulla vita relazionale, sociale e sessuale della persona”.

Sebbene possa sembrare una patologia rara, la vulvodinia colpisce fino al 16% delle donne di ogni età, con un picco di incidenza tra i 20 ei 40 anni.

Si riconosce un fattore genetico predisponente su cui si innescano fattori scatenanti come infezioni vaginali e/o vescicali, microtraumi (causati da un rapporto sessuale con scarsa lubrificazione o da ipertono del pavimento pelvico, indumenti stretti, sequele da parto), attività quotidiane o sportive (bicicletta, spinning, equitazione…), uso di prodotti intimi aggressivi (assorbenti o salvaslip non in cotone, salviette e detergenti intimi).

Qualunque ne sia l’origine, il dolore vulvare è dato da un’alterata percezione delle terminazioni nervose, centrali e periferiche, con conseguente sensibilizzazione cronica che può arrivare, col tempo, a impattare negativamente sul tono dell’umore e sulla qualità della vita. Questo dolore può essere generalizzato (vulvodinia generalizzata), o localizzato sul clitoride (clitoridinia) o sull’introito vaginale (vestibolodinia). Dal punto di vista della tipologia, si tratta prevalentemente di un dolore urente, tagliente, trafittivo, a punture di spillo, la cui intensità risulta di solito ingravescente col passare del tempo se non si mettono in atto cure adeguate.

Tuttavia, diagnosticare la vulvodinia può essere un percorso tortuoso: solo una piccola percentuale di pazienti ottiene una diagnosi corretta alla prima visita ginecologica, e il ritardo medio nel riconoscimento della condizione è di quasi 5 anni.

La difficoltà nel giungere a una diagnosi corretta in tempi brevi non è dato dalla complessità diagnostica in sé, piuttosto dall’”invisibilità” della patologia: i genitali esterni appaiono normali all’osservazione, senza segni evidenti di infiammazione o particolari lesioni. Pertanto, è cruciale conoscere la patologia per poterla riconoscere con un approccio clinico che vada oltre l’osservazione visiva e si concentri sull’ascolto della paziente.

Esistono procedure diagnostiche semplici, come una accurata amnamnesi, l’esame fisico e lo swab test, che possono aiutare a identificare la vulvodinia. La terapia è altrettanto complessa, spaziando dall’uso di farmaci alla fisioterapia riabilitativa e alla consulenza psico-sessuologica. L’approccio terapeutico deve essere multimodale, multidisciplinare a seconda delle situazioni, coinvolgendo tutte le figure professionali necessarie in ogni singolo “tailored therapy”, cioè costruito in relazione alle caratteristiche della malattia della singola paziente.

Soprattutto, è necessaria la tempestività della diagnosi e della cura, perché solo così saremo in grado di aiutare le nostre pazienti a guarire da questa patologia invalidante.

Perché guarire… si può!

A cura della dott.ssa Barbara Del Bravo, ginecologa e ostetrica